sabato 14 dicembre 2013

Lettera ad un genitore che vuole imporre a suo figlio (o sua figlia) la scuola sbagliata.


Gentile madre, questa lettera è reale, ma approfitto dell’occasione, visto che non è stato possibile parlarci di persona, per prendere questa singola vicenda come esempio, ahimè molto diffuso, di tutti i genitori che impongono ai figli una scuola sbagliata. L’altro giorno mi è scappata la frase, parlando con C.: “Imporre una scuola sbagliata a un figlio vuol dire rovinargli la vita”. Dopodiché lei si è messa a piangere come una fontana. Sul momento, mi sono sentito un po’ in colpa, e allora ho cercato di capire come e perché fosse avvenuto. Qualche giorno prima avevo visto che faceva davvero dei bei disegni, ed era stata lei a dirmi che avrebbe voluto andare al liceo artistico. Mi ha detto che tutta la sua famiglia ha fatto il liceo scientifico, e nell’immaginario familiare avrebbe dovuto farlo anche lei, C. Mi ha detto che lei l’ha portata in piazza Duomo a vedere che fine fanno quelli a cui piace disegnare: i madonnari, per convincerla che quella non è una strada da seguire. Ma lei, C., vedendo i madonnari “sbavava”, termine adolescenziale ma efficace, per dire che insomma le piaceva. Ciò che nelle sue (di madre) intenzioni avrebbe dovuto scoraggiarla, a lei invece piaceva. Il liceo artistico non offrirebbe uno “sbocco lavorativo”, e insomma a questo punto pare che l’unico ipotetico compromesso possibile fosse il liceo delle scienze umane, che in teoria doveva avere almeno un’ora di arte, ma poi in realtà non c’era manco questa, o meglio, c’è solo nel triennio. L’espressione “sbocco lavorativo” è purtroppo molto in voga in Italia, è ormai una frase idiomatica che si usa quando si vuole convincere qualcuno, magari un figlio, o un nipote, che non deve fare quello che gli piace, quello che vuole, quello che desidera, perché morirà di fame, in quanto non c’è uno “sbocco lavorativo”. Si può usare per convincere che sia la cosa più saggia iniziare un percorso di studi dei quali non c’importa nulla. Studiare per 5 anni - o più, male che vada, data la mancanza d’interesse-, tante materie di cui non c’importa nulla, per 5 ore al giorno, e poi altri pomeriggi a casa. Oppure intraprendere un percorso di studi universitario o parauniversitario che non ci interessa, solo perché è la strada fissata per noi, ce lo dicono papà o mamma, e insomma anche qui perché c’è un maggiore sbocco lavorativo, fosse anche il più deprimente o il più inadatto. Sbocca “qualcosa” che si accumula in un canale e deve uscire, una qualche massa informe e melmosa, intoccabile. Non sbocca un’arte, non sbocca un genio, non sbocca una meraviglia. Un talento, un’arte, una meraviglia appaiono, si manifestano, sbocciano, fioriscono, stupiscono, sorprendono, come un aquilone che inizia a volare, come un disegno non richiesto, non necessario, che nasce dal cuore da chi lo realizza. Il lavoro cui ognuno dovrebbe ambire, almeno da bambino, o da ragazzo, è quello verso il quale si è portati (o portate). 
Leggevo il 20 novembre scorso sul Corriere della Sera un bell’articolo su Flaubert. Egli era stato indirizzato dal padre a studi di legge, che lui odiava. Ecco come descriveva la sua situazione:  
“La giustizia umana”, scrisse qualche mese dopo a un amico, “è per me quello che c’è di più buffonesco al mondo, un uomo che ne giudica un altro è uno spettacolo che mi farebbe crepare dal ridere, se non mi facesse pietà… Non vedo nulla di più idiota del diritto, se non lo studio del diritto. Ci lavoro con un estremo disgusto”. Malgrado queste dichiarazioni, cominciò a studiare legge, a Rouen e nell’appartamento che aveva affittato a Parigi al numero 19 della rue de l’Est. Era furibondo. “Il diritto mi uccide – scriveva il 25 giugno 1842 a Ernest Chevalier -, mi abbrutisce, mi sconnette, mi è impossibile lavorarci. Quando sono rimasto tre ore con il naso sul Codice, durante le quali non ho capito nulla, mi è impossibile andare oltre, mi suiciderei”. “Voglio finirla prima possibile – ripeteva il 10 dicembre alla sorella Caroline -, perché non può durare più a lungo così, finirei in una condizione di idiotismo o di furore. Questa sera, per esempio, sento simultaneamente queste due piacevoli condizioni di spirito”. “Sono così irritato, così infastidito, così furioso – continuava 5 mesi dopo - . Qualche volta ho voglia di dare pugni al mio tavolo e di far volare tutto a pezzi: poi, quando l’accesso è passato, mi accorgo dalla mia pendola che ho perso mezz’ora in geremiadi, e mi rimetto ad annerire della carta e a voltare le pagine più velocemente di prima”. Bestemmiava spaventosamente, alternava ruggiti e sbadigli, pestava i piedi, gettava grida di desolazione". 
Poi si ammalò, e nel suo caso su una fortuna:
"Il padre trasformò completamente la sua vita. Lo obbligò a stare in Normandia, sotto la sorveglianza costante della famiglia, e gli impedì di continuare gli studi di diritto a Parigi. Per questo aspetto, il figlio considerava la crisi come benvenuta".

Il lavoro dovrebbe essere qualcosa per cui vivere, non qualcosa che si fa per vivere. Dovrebbe essere un amore, che fa danzare, che fa gioire. E non pensi che sia possibile solo per i lavori ampiamente remunerativi o considerati di prestigio in questa società. Questa è un'idea consumista che considera i soldi l’unico valore e che disprezza tutti i mestieri veramente utili, dagli infermieri ai cuochi, dai contadini agli spazzini. (Preferisco usare questo termine meno politicamente corretto ma più poetico). Non solo. Diceva Ungaretti che la poesia è completamente inutile. Tutta l' arte è totalmente inutile. Qualunque odontotecnico o idraulico o meccanico sono più utili dei pittori, degli scultori, dei fotografi, danzatori, musicisti, cineasti, scrittori. Ma pensi se Leonardo, o Giotto, o Michelangelo, avessero fatto i dentisti, (esistevano anche allora, per quanto diversi) i medici, gli avvocati. Se avessero pensato allo ‘sbocco di lavoro’ forse non avrebbero mai fatto quello che hanno fatto. Ma per ogni Giotto e ogni Michelangelo ci sono 1000 o 1 milione di poveracci che hanno fatto la fame, mi dirà lei, che non sono in alcun libro di storia e storia dell'arte, che non hanno fatto fortuna, e questo vale ancora oggi, per ogni regista, per ogni cantante, per ogni fotografo, per ogni Kubrick, Edith Piaf, Ansel Adams, ce ne saranno forse 10.000, 100 mila, 1 milione che avrebbero voluto diventare altrettanto grandi, altrettanto famosi... È vero. Ma innanzitutto tanti di questi, io credo la maggioranza, preferiscono essere poveri e usare la loro vita come vogliono loro, non pensando allo stipendio fisso. Vogliono lasciare il mondo più bello di quando sono arrivati, non più brutto, anche se con detrimento del loro conto in banca. Secondariamente, quanti hanno finito col fare un lavoro che non volevano, che a loro non piaceva, col quale non c'entravano niente, un puro ripiego, solo per lo stipendio fisso? La maggioranza dell'umanità, come dice giustamente Silvano Agosti ne il Discorso tipico dello schiavo -le consiglio di vederlo, è su YouTube -, non è fiorita, si è adattata semplicemente alla schiavitù planetaria. C’è una forma di barbarie, o meglio una mentalità perlomeno retrograda, che porta a fare matrimoni combinati, con mariti o mogli designati dai loro genitori prima ancora che raggiungessero l'età della ragione. È un'usanza ancora in auge in molte culture, forse nella maggioranza della popolazione mondiale, anch'essa è sorretta dall'idea che comunque i genitori "sappiano qual è il bene dei figli". "Hanno più esperienza di loro". "Un giorno i figli li ringrazieranno". Fortunatamente non è più così nel mondo occidentale e tende a scomparire anche altrove, ma è ancora molto frequente e diffusa, tra noi, questa aberrazione: il dover decidere cosa faranno i nostri figli della loro vita. O perché proiettiamo su di loro i nostri desideri, rimpianti, frustrazioni, o perché non abbiamo fiducia in loro, non crediamo che realizzeranno ciò che sentono più profondamente, o perché più semplicemente temiamo che patiranno la fame. In questo senso, la maggior parte dei genitori, senza rendersene conto, auspica per i propri figli un destino mediocre. Tirare a campare. Sbarcare il lunario. Sopravvivere. Non si pensa mai ai propri figli come come a dei geni, o più semplicemente come a degli esseri originali unici al mondo, che se lasciati liberi di esprimere le loro potenzialità faranno loro stessi qualcosa di unico al mondo. E non mi riferisco necessariamente a un'opera d'arte. Potrebbe essere un nuovo motore o una nuova scoperta, una nuova invenzione, ma in realtà anche ogni affetto, ogni figlio o famiglia, ogni genitore, ogni uomo e ogni donna sono essi stessi unici al mondo... Quindi non si senta criminalizzata. L'errore che, secondo me, sta commettendo lei, in buona fede e con tutto l'amore di un genitore, che comunque non è infallibile, lo commettono in molti e non vale soltanto per una potenziale pittrice che diventi un'educatrice o un avvocato (o avvocatessa). Ma anche per un potenziale contadino che diventi un medico, o per un possibile ingegnere condannato dal padre, per esempio, a dover seguire il suo negozio. Non vorrebbe che sua figlia la ricordi come la madre che le permise di realizzare se stessa, anziché come quella che le impedì di fare ciò che desiderava, ciò che voleva, che la costrinse a fare ciò che non voleva? Sono parole un po' forti, me ne rendo conto. Ma qualcuno deve pur dirle. Se queste cose non gliele dice un insegnante, che la conosce, chi altri? Se non ora, quando? E poi perché sempre credere che i figli sbaglieranno, falliranno, si riveleranno incapaci? Se un angelo le assicurasse: "Sì, se lei seguirà la strada giusta diventerà una grande artista, farà mostre a New York e Parigi, i suoi disegni saranno utilizzati per pubblicizzare Olimpiadi e festival del cinema, i suoi quadri costeranno milioni... Allora cosa preferirebbe, lo sbocco lavorativo? È anche vero che in realtà ognuno è artefice della propria vita, nonostante tutto, oltre le costrizioni e gli obblighi, le speranze e i timori dei genitori, oltre le interferenze, certamente mai gradite, degli insegnanti, di parenti e amici. Se uno/a ci crede ugualmente coltiverà il suo sogno. Si sa che le scuole "artistiche", soprattutto come strutturate oggi, che siano d'arte di recitazione o di cinema, non garantiscono di per sé nuovi Rembrandt o Marlon Brando. Spesso anzi danno impostazioni sbagliate, inquadrano, irreggimentano, spesso deprimono i talenti anziché aiutarli a fiorire, e questo dipende anche dalla fortuna. In ogni scuola, di ogni livello, dai licei classici ai professionali ci sono incapaci che pretendono di insegnare solo urlando, e nelle classi attigue altri insegnanti competenti, autorevoli, sensibili, che non solo insegneranno abilità e competenze, ma forniranno modelli positivi e di vivere e di stare al mondo. (E ahimè saranno pagati allo stesso modo!) Però cinque anni, bene che vada, in un'età così delicata, inevitabilmente danno un'impronta profonda, in un senso o nell'altro, un'impronta intellettuale, psicologica, emotiva. E se quest'impronta sarà di pensare solo per tutta la vita allo stipendio fisso, e non a quello che nel mondo si fa, e non all'uso che faremo di questi 80 o 90 anni di questa vita, di vivere pensando ai numeri dei conti correnti e non a ciò che siamo e che diventiamo, ciò che diamo agli altri e dagli altri riceviamo, al di là dell'opportunità politica, del "si faccia i fatti suoi", del "a me che me ne viene"? 
Se non si va oltre questo, che impronta sarà? 

                Cordialmente Antar Chirag/Bruno De Domenico

giovedì 13 giugno 2013

SULLA VIOLENZA NEI MEDIA - Dialogo tra la National Rifle Association e una persona di Buon senso



SULLA VIOLENZA NEI MEDIA

Dialogo tra la National Rifle Association e una persona di Buon senso

Ho riflettuto a lungo quali dovessero essere i due protagonisti di questo piccolo dialogo. Alla fine, ho scelto, come rappresentante dell’industria mortifera, la National Rifle Association, l’associazione-lobby rappresentante negli USA dell’industria delle armi, così orribilmente sfrontata da andare a difendere “il diritto, secondo loro sacrosanto, della libera vendita di armi”, anche nei luoghi dove poche ore prima è avvenuta una strage all’interno di una scuola, come documenta Michael Moor in “Bowling a Columbine”. In realtà non c’è solo l’industria delle armi a beneficiare del cinema USA più idiota e violento, ma è sicuramente una delle più potenti e che contribuisce concretamente a diffondere morte nel modo più concreto e rapido che possa esistere, con le armi. Questo non solo perché le continue sparatorie, ammazzamenti, omicidi rappresentati nel cinema (e nei serial televisivi) vengono concretamente emulati e copiati da persone che si trasformano in assassini nella vita reale, ma anche per l’idelogia che questo tipo di cinema contribuisce a diffondere, un’ideologia violenta, guerrafondaia, fascista, per cui gran parte dell’umanità è violenta e malvagia e può essere contrastata solo sterminandola, con altrettanta violenza. E questo varrebbbe sia per che ci sta a fianco sia per altri popoli.
Dall’altra parte, ho preferito non mettere qualche dotto o esperto che citasse ricerche scientifiche di psicologia sperimentale, o statistiche, o sociologiche, o antropologiche,  che pure esistono, ma semplicemente una persona di Buon senso.
Perché è il semplice Buon senso che ci dice che se c’imbottiamo di merda staremo male, e che se ci riempiamo di luce staremo bene.


National Rifle Association: Le scene violente, in cinema o in tv,
possono avere effetti negativi solo su chi è già disturbato, solo su chi ha già problemi. Non su chi è sano.

Buon senso: Naturalmente. Anche le botte, possono avere effetti negativi solo su chi è già debole, non su chi è sano. E sui bambini?

National Rifle Association: Ma certo, se i bambini sono sani mica qualche scena violenta gli fa male?

Buon senso: Neanche se ha assistito a 18000 omicidi nei primi 10 anni di vita?

National Rifle Association: Ma certo, se è sano, che male gli fa? E poi, non sono mica omicidi veri?

Buon Senso: A parte che molte di queste immagini, le scene di guerra, di mafia, i telegiornali che mostrano le rapine, molte sono vere, il bambino non sa distinguere tra realtà e fantasia. Quindi la violenza che assorbe, anche se simulata, per lui è violenza vera.
In realtà non solo il bambino. Anche per il cervello adulto, le simulazioni di violenza, di guerra e di morte, sono reali, altrimenti non proveremmo l’emozione che cerchiamo, per esempio, nei film dell’orrore.
Se realmente sapessimo che è fasullo, anche nella parte più emotiva, non ci farebbe nessun effetto, no?

National Rifle Association:
O béh, insomma, qualcosa alla tivù bisognerà pur vedere, no?

Buon senso: Davvero? Per forza bisognerà vedere la tv? E prima che fosse inventata, l’umanità come viveva? Ma ammettiamolo, qualcosa bisognerà pur vedere. E perché non vedere scene d’amore? In tutti i sensi? Cuccioli dati alla luce?
Albe, tramonti, viaggi in paesi lontani? Cultura, animali, popoli lontani, le savane, le praterie, i deserti, la foresta amazzonica? O più semplicemente le persone vere, anziché mafiosi e terroristi e poliziotti che si ammazzano, o soldati contro alieni, dove alla fine sono sempre le armi a risolvere?
O più semplicemente come si soccorre qualcuno?

Conoscere queste manovre può salvare la vita a dei bambini…
http://www.youtube.com/watch?v=1AY34yKQNIc
(e non solo, prima era sulla homepage del sito della della Croce Rossa, ahimè adesso non più).

Oppure questo:
http://www.youtube.com/watch?v=e89gSLVPc18
o questo
http://www.youtube.com/watch?v=7eLGyTNdnZA
o questo
http://www.youtube.com/watch?v=18a1GQUZ1eU
o questo
http://www.youtube.com/watch?v=7_YCbFH0y_Q
o questo
http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Flash&d_op=getit&id=13546
o questo
http://www.youtube.com/watch?v=gAzetLE6o8Y
o questo
http://www.youtube.com/watch?v=KtbZ2dA3YLE
o questo
http://www.ilribelle.com/ribellewebtv/2011/6/29/debtocracy.html
o questo
http://www.youtube.com/watch?v=5zSkbKs5h2A&list=PL8A6DE44008A7C098
 

Ma no, noi preferiamo guardare i plastici di Bruno Vespa sull’ultima ragazza ammazzata, e leggere su Chi e Visto i particolari morbosi: quanti accoltellamenti, sono state violentate? Ma poi, tanto, se siamo sani, che male ci fa? Anche un bambino, se è sano, lo si può bastonare, tanto l’importante è che sia sano. Ma da dove viene la salute? Non viene forse da ciò che mangiamo, da ciò che pensiamo, da ciò che facciamo? Dai nostri comportamenti, da ciò che respiriamo, dalle nostre relazioni?
O c’è un lugubre ufficio, dove qualcuno in camicie bianco, ci attesta, una volta per tutte: “Tu sei sano!?” O “Tu sei malato!?”
E da quel momento in poi, se siamo sani, possiamo andare a puttane, o giocare alle macchinette mangiasoldi, o imbottirci di tv (o di internet) 8 ore al giorno, o fumare, o respirare amianto, o vivere in mezzo alla merda e alla sporcizia più fetida, tanto, qualcuno ha detto che siamo sani?

National Rifle Association: Ma che c’entra, quelle sono cose fisiche! E chiaro che se uno sta in un ambiente fisicamente pericoloso o si contagia con qualcosa, si ammala!

Buon senso: Ah sì, e invece, i problemi psichici, come vengono? Non vengono, forse, e non si alimentano, nella nostra vita, giorno per giorno, da ciò che incide sulla nostra mente, sui nostri pensieri, sulla nostra psiche?
Le nostre relazioni sentimentali e sessuali, i rapporti di lavoro, le compagnie, i parenti, gli amici? Oppure, se siamo sani, possiamo assorbire violenza per  varie ore al giorno, e imbottirci di battibecchi politici, poi mangiare in un quarto d’ora cibo spazzatura, e poi stare immersi nel rumore per tutto il giorno, e respirare lo smog, bene che vada, e avere a che fare solo con gente cafona e ignorante, e volgare, e magari essere costretti a fare dei lavori di merda, che ci fanno vomitare, tanto, se siamo sani, questo non influirà sulla nostra mente, che albergherà solo pensieri sublimi di pace e amore?

National Rifle Association: Ma che c’entrano tutte queste cose?

Buon senso: Se uno è sano può sopportare, se no non è che si ammala per questo, no? E dove sta il confine tra la salute e la malattia?
Dove fai finire l’ansia positiva, necessaria per affrontare la vita, e quella patologica che te lo impedisce?
L’ansia è sempre ansia, ma è la sua quantità che ci fa passare dalla normale attivazione (o anche aggressività, quando necessaria), all’ansia che ci impedisce di vivere. E la paura? Non è anch’essa di per sé naturale, anzi, d’aiuto, in una vita “normale”?
Essa ci può preservare dall’essere avventati, dal guidare in modo pericoloso per noi e per gli altri, dagli incidenti.
Però se questa viene alimentata continuamente, continuamente, continuamente, non è più una paura amica, è qualcosa che ci blocca, ci impedisce di muoverci, ferma ogni nostra iniziativa, ogni sconosciuto diventa pericoloso, ogni nuovo ambiente diventa terrificante.
E anche quest’ansia dell’accumulo, che bisogna avere sempre le cose all’ultima moda, se no gli altri ci considereranno delle schifezze, e bisogna restare sempre ventenni, ed essere sempre come Miss Universo, e  plastica farsi e siliconarsi e  botulinizzarsi tutti e abbronzarsi artificialmente a ottobre come se si fosse alle Bahamas a ferragosto, e i vestiti, e il nuovo cellulare, la nuova auto, ecc. ecc. Non sono quest’avidità e queste ossessioni alimentate da ciò che vediamo?
E la depressione? Non esistono forse dei ripiegamenti su noi stessi, salutari, utili a farci riflettere, dei momenti di riflessione sulla nostra vita, delle chiusure giuste ed equilibrate che ci difendono dall’iperstimolazione, dal dover sempre reagire a ogni cosa e ad ogni costo? Non siamo in tal caso liberi, almeno per un po’, dalle ansie che ci hanno indotto, di accumulare sempre più, di scopare sempre più, di affermarci sempre più?
E se questi ripiegamenti sono, però, a loro volta, etichettati e patologizzati, o sclerotizzati e irrigiditi, non potremmo anche per questo diventare veramente incapaci di aprirci e sorridere, anche perché gravati da quelle ansie, da quelle paure, di cui bellamente ci siamo ingozzati, “che se fossimo stati sani non ci avrebbero fatto niente”?
E il fatto che tutti tendiamo a imitare ciò che vediamo, e chi è più giovane assorbe ancora di più, sia che si tratti di bullismo o di omicidi, tutta questa violenza terribile, possiamo dire che non vale per il cervello?
Esso non la imiterà? Le diremo: “No, questo è brutto, io me ne ingozzo, ma tu fai finta di niente, non farti influenzare da tutte queste coltellate, mitragliate, bastonate… la mia vita è vuota, è deprimente, dovrò pur riempirla di qualcosa di emozionante?”
No, ne siamo certi, il cervello saprà distinguere, e saprà imitare solo le cose belle. Il cervello non reagisce alla realtà che assorbe, la storia dei neuroni specchio vale solo sugli articoli di giornale, noi facciamo sorbire alla nostra mente la merda che vogliamo, ma senza dubbio questo non influirà in alcun modo sui nostri pensieri, no?
Dopo tutto, vale anche per il nostro fisico: se mangiano uova o frutta marce, carne in putrefazione, (la carne in realtà lo è di per sé, ma lasciamo perdere… formaggi stantii, che male ci farà, (e anche sui latticini, lasciamo perdere…) se siamo sani?

National Rifle Association: Ma come si fa a poter dire che quella o questa violenza al cinema abbia influito su questa o quella persona e sia stata determinante nello scatenare l’ansia o l’angoscia, la paura o la violenza?

Buon senso: Naturalmente, non si può stabilire nessuna relazione precisa, come non si può stabilire che chi ha vissuto per anni in un ambiente dove ha respirato amianto o acciaio si sia ammalato perché lo ha respirato in tali giorni e in tali posti… è il tempo in cui si è trovato in quell’ambiente, è l’aumento complessivo di un male su quella data popolazione, che dimostra la loro influenza sulla sua malattia… Il cinema USA, quello più violento, più promotore delle armi e della guerra, del fumo e dell’alcool, del cibo immondizia, delle mode, degli incidenti stradali e della mercificazione assoluta, in una parola, dell’inconsapevolezza, è diffuso quasi ovunque in tutto il pianeta, e vediamo con quali bei risultati…

National Rifle Association: Ma allora, se fosse come tu dici, tutti saremmo violenti, depressi, panicanti, anoressici, bulimici, insonni…

Buon senso: E’ vero, questa società è felice. Non c’è nessun problema. Gli psicofarmaci vengono ormai ingurgitati come caramelle, in ogni classe ci sono ragazzi con disagi psicologici ed emotivi profondi, molte persone vivono costantemente attaccate a uno schermo, altri dilapidano tutti i loro soldi a puttane o nel “gioco”, altri si ubriacano dalla mattina alla sera e picchiano i familiari, altri si ammazzano o ammazzano quelle che credono “le loro donne”, o entrambi…

National Rifle Association: Ma tutti costoro, se fossero sani, non farebbero queste cose.

Buon senso: Già, che cosa c’entra tutto ciò con quello che vedono, quello che sentono, quello che gli viene fatto credere e quello che sono costretti a fare, e quello a cui sono costretti a rinunciare, per tutta la loro vita?
E quand’è che si stabilisce che uno è sano o malato, e dopo quale età, a 10 o a 15 anni, a 30 o a 50 anni, si potrà affermare, con certezza, che anche se farà di tutto per farsi male, psicologicamente o fisicamente, per ammalarsi, per autodistruggersi, per avvelenarsi, per abbrutirsi, se era sano, resterà sano?

martedì 30 aprile 2013

Attacchi di panico: capirne il perché o uscirne?




Gli attacchi di panico sono uno dei problemi oggi più diffusi.

A tutte le fasce d’età. In uomini e donne. Ragazzi e ragazze.

Purtroppo una delle cose che più tendono a mantenerli sono proprio le tentate soluzioni. E’ questa una delle idee fondamentali della terapia familiare e sistemica, e in particolare della terapia strategica. Non possiamo sempre sapere il perché c’è qualcosa che non va. Il saggio taoista dice che la vera salute, come sempre il simbolo del Tao ci illustra, (il cerchio con le due metà nere e bianche che sfumano una nell’altra), non è la salute sempre perfetta.
E’ questo un mito che torna utile solo alle industrie farmaceutiche, e a certi medici e psicologi in quanto, alla ricerca di questa salute perfetta, assumiamo farmaci e intraprendiamo cure (o facciamo operazioni), che spesso ce la rovinano davvero.

La vera salute è una continua oscillazione tra salute e non salute, là dove per non salute ovviamente non si intendono malattie gravi e niente che ci impedisca di tornare presto a uno stato di completo benessere.

Normalmente ci preoccupiamo forse in modo eccessivo di ogni mal di pancia o mal di testa? L’importante è che ci passi. In realtà ogni mal di pancia o mal di testa è un segnale che il corpo ci dà, di qualcosa che stiamo facendo o abbiamo fatto che non va. (Troppo freddo, troppo al computer o alla tivù o comunque davanti a uno schermo, eccessivo sforzo dei muscoli del collo, alimentazione eccessiva e pesante, aria condizionata, stanchezza, mancanza di riposo, sforzo eccessivo, stress, rumori, troppo sonno o troppo poco, ecc.)

Se siamo sensibili al nostro corpo capiamo questo qualcosa e ristabiliamo le condizioni ottimali, anziché nascondere la segnalazione che il corpo ci dà con analgesici. Ma questo non è detto. Possiamo anche non capire il perché, l’importante è non preoccuparcene eccessivamente, e che ci passi. Se non ci passa, ovviamente non dobbiamo trascurare questo maggior segnale d’allarme, che ci indica che siamo ancora soggetti a qualcosa che non funziona per il meglio.

Paradossalmente, se sdrammatizzassimo degli iniziali attacchi di panico, non facendoci attaccare delle etichette di malati psichiatrici talvolta anche per uno solo di essi, non sarebbero così diffusi e non diverrebbero così invalidanti come diventano per alcuni/e. Su questo lucra l’industria farmaceutica, che fa passare alla televisione messaggi per cui gli attacchi di panico sono un problema psichiatrico tout court e che si curano solo coi farmaci.

Quello che già Cassano e gli psichiatri biologisti stanno ormai portando avanti da tempo anche con la depressione, paragonando gli antidepressivi all’insulina per i diabetici, quindi da prendere a vita. 
Un paragone secondo me delirante, disonesto e antiscientifico.

Ho avuto modo di confrontarmi su questo anche con persone di elevato livello culturale e purtroppo questo tipo di messaggio è stato così bombardante e potente che spesso ha fatto presa. (In modo simile del resto con quello che è successo con la disfunzione erettile dove ormai si pensa quasi solo a protesi e pompette, o più semplicemente cialis e viagra, escludendo ogni comprensione psicologica del problema).

Tutto ciò non solo contribuisce a una profezia che si auto avvera, ma pone le premesse per una maggiore ansia: “la paura della paura”.
Chi non verrebbe preso dall’angoscia, o meglio, da un ansia che diventa angoscia, se lo si convince che se gli viene l’ansia è in quanto tale un malato e ne resterà prigioniero a vita?
Immaginiamo di andare sulle montagne rosse, o giostre simili. Sappiamo che questo ci provocherà, a chi più a chi meno, dei vuoti di stomaco e persino degli attimi di terrore, ma in fondo è quello che ci cerchiamo salendo sulle giostre, per la loro funzione più o meno catartica. 
Ora, immaginiamo per un attimo che tutti quelli che sono intorno a noi, che vanno anche loro sulle montagne russe, ci dicano, ci convincano, e/o siano stati essi stessi convinti, per una serie di ragioni, che è anormale, o patologico, o da malati, provare quei "sintomi". Immaginiamo che tutti ci convincano di questo, persino quelli stessi che provano gli stessi nostri sintomi, anche se sono molti, moltissimi. Del resto, loro stessi a loro volta erano stati convinti che sia grave avere anche un solo 'attacco', che sia un fenomeno puramente chimico e che non se ne esce senza farmaci, e sarà destinato a durare a vita. Anzi, che dovremo prendere per sempre farmaci, per non averli mai più.
Lo stesso tipo di fenomeno, di manipolazione e strumentalizzazione, e di patologizzazione, per qualità e quantità, viene oggi applicato sistematicamente a ogni cosa che si discosti dalla media, dalla norma, dal solito, per la timidezza e per la tristezza, per l'ansia come per ogni difficoltà sessuale oppure per l'insonnia, (non apriamo qui l'orrendo capitolo dell'ADHD, il cosiddetto disturbo da deficit dell'attenzione, grazie al quale milioni di bambini sono drogati a vita...), come del resto si fa altrettanto subdolamente in medicina con la pressione, col colesterolo, con ogni presunto problema digestivo o dell'apparato escretore, ecc.
Ma tornando alle difficoltà psicologiche, e in particolare a tutti gli stati ansiosi, il ricorso a lungo termine a psicofarmaci, e soprattutto la convinzione che non se ne possa fare a meno è l’ultimo corollario di tutta la catena.

E di catena trattasi, infatti.

In realtà negli attacchi di panico sono coinvolti la nostra respirazione, il nostro sistema circolatorio e lo stesso battito cardiaco, collaboranti in un quadro di estrema raffinatezza e complessità.
Il problema degli attacchi di panico non sono i sintomi fisici di per sé, ma il panico da essi scatenato. Tutti abbiamo determinate vulnerabilità, fisiche e psicologiche, chi è soggetto a questi è più sensibile e vulnerabile a questo tipo di problematica, ma non merita per questo che gli si appiccichi una sgradita e indelebile etichetta.
Panico viene dal greco pan, che indica qualcosa di totalizzante, che non lascia spazio a nient’altro.

Si può però aiutare chi soffre di attacchi di panico a riprendere il controllo della propria vita imparando a liberarsi dagli/degli attacchi di panico, non andando per anni alla ricerca infinita della presunta causa/e, (ricerca che non fa che ravvivarli e a lungo andare peggiorarli), non imbottendosi di medicine, non organizzando la propria vita dipendendo da essi.

In questo processo, come in tutte le terapie strategiche, non è importante scoprire la causa originaria, assunto epistemologico di tipo ottocentesco che spesso complica, anziché risolvere i problemi (e non solo in psicologia!) che non si può mai conoscere con certezza, e che anche se si conoscesse, non ci libererebbe dal problema.

La razionalità, o la presunta conoscenza sono una cosa, i comportamenti e le emozioni un’altra. 

Il problema non è capirne la causa originaria, ma uscire dalla paura che ci può portare a condizionare pesantemente le nostre vite, a rinunciare alla libertà di cui godevamo prima. E’ qualcosa che travalica la sintomatologia in sé, ma va a coinvolgere l’intero sistema di vita di chi, senza volerlo e senza rendersene conto,ha finito per costruirsi attorno una ragnatela in cui è rimasto intrappolato/a.

Bibliografia essenziale

Non c'è notte che non veda il giorno,
Nardone, Ed. Ponte Alle Grazie

Oltre i limiti della paura,
Nardone, Ed. Ponte Alle Grazie

Terapia breve strategica,
Watzlawick, Nardone, Ed. Cortina

Manuale di sopravvivenza per psico-pazienti,
Nardone, Ed. Tea

Paura, panico, fobie,
Nardone, Ed. Ponte alle Grazie

L'Arte del cambiamento,
Watzlawick, Nardone, Ed. Tea



Terapia Breve Strategica

Autore: Watzlawick P., Nardone G.
- See more at: http://www.giorgionardone.it/pubblicazioni.php#sthash.Uw30vwBK.dpuf

sabato 27 aprile 2013

Sui gruppi di cambiamento



Mi è capitato di riflettere in questi giorni su tanti gruppi che si fanno, a cui si partecipa, con una intenzione e un proponimento di cambiamento, di stare meglio, più felici, o, se proprio vogliamo usare un’espressione al negativo, ma non dovremmo, per soffrire meno.
E mi sono apparse chiare molte dinamiche e meccanismi positivi che questi gruppi possono avere in comune, a prescindere dalla loro origine, estrazione sociale o culturale, da ciò che di particolare in essi viene fatto o suggerito.
Mi spiego meglio. Immaginiamo che ci siano 100 persone; per fare un esempio più significativo, diciamo 100 persone in stato di sofferenza, per un motivo o per l’altro.
Ovviamente a questi gruppi partecipa anche a chi sta bene o relativamente bene, ma il mio discorso verte proprio sulla questione del cambiamento, per cui immaginiamo di prendere, ad esempio 100 persone “che soffrono”.
Di questi 100, 50 partecipano a vari gruppi, e altri 50 no.
Immaginiamo che dei 50 non partecipanti (il gruppo di controllo), di qui a sei mesi, o un anno o più, 10 miglioreranno, 10 continueranno sempre nello stesso modo, e 30 peggioreranno. Ovviamente questo non è un esperimento, non vi è statistica, punto di significatività, follow up, campionamento, ecc. E’ solo una mera speculazione psico-filosofica, in cui però provo a evidenziare alcuni punti in comune protagonisti e creatori di cambiamento nei gruppi. Perché immagino che nel gruppo dei 50 che non partecipano a un gruppo 30, cioè la maggioranza, peggiorerà? Per il semplice motivo che se prendo delle persone che stanno male, o perché depresse, o bulimiche, o dipendenti da droghe, dal gioco o dall’alcool, o invischiate in relazioni sadomasochiste, o per mille altri motivi, se questi/e non fanno nulla per uscirne, né gruppi, né terapie di alcun tipo, per il corpo o per la mente, né si rivolgono ad alcun interesse o passione che li distolga dalla loro auto-distruzione, non potremo aspettarci che miglioreranno!
Come dice Battiato, e i buddisti, se vuoi sapere cosa sarai domani guarda quello che fai (e quello che pensi) oggi!
Degli altri 50 che partecipano a vari gruppi, immaginiamo che 5 peggiorino, 15 restino invariati e 30 migliorino, poco o molto.
Ripeto, non è un esperimento e non mi baso su alcuni dati reali, voglio solo evidenziare dei punti in comuni possibili fattori di cambiamento.

Entriamo dunque nel vivo di quest’analisi.
10 fanno il gruppo “Heidi”, 10 il gruppo “Goldrake”, 10 il gruppo “Remì”, 10 il “Capitan Harlock” e 10 il “Paperino”.
Ovviamente non rientrano tra questi nessun gruppo autolesionista e autodistruttivo, che aizzi all’odio o all’aggressività, ecc. Gruppi che pure esistono, purtroppo, ma che escludo a priori da questi che chiamerò “gruppi di guarigione”.
Sono 5 gruppi molto diversi, di diversa origine culturale, hanno costi diversi, il livello economico, sociale e culturale sia dei partecipanti che dei conduttori può essere anche molto diverso. Alcuni sono più efficaci, altri meno, ma comunque complessivamente hanno un effetto positivo. Perché?

1)      L’elemento dell’aspettativa/suggestione/placebo, senza qui soffermarci a sottilizzare sulla differenza tra l’uno e l’altro. Il “placebo” non è una parolaccia, ma è comunque un qualcosa che seppure “dettato dalla mente”, può avere effetti reali, realissimi, tanto positivi, se è un placebo positivo, quanto negativi, se è un placebo negativo, (nocebo).
Sta ai terapeuti, di ogni tipo e parte del mondo, e in questi casi ai conduttori, sfruttarlo positivamente e ampliarne le possibilità. Ma in ogni situazione in cui si decide di cambiare, e questo vale ovviamente non solo per i gruppi ma anche per le terapie individuali, che siano basate sulla parola o sul corpo, cure naturali, ecc., c’è un qualcosa che si mette in moto nelle persone finalizzate al cambiamento, una leva che le spinge a migliorare, a migliorarsi, e all’ottimismo.
Del resto è una cosa lapalissiana: se uno fa qualcosa per cambiare è perché vuole/è disposto/accetta di dover migliorare qualcosa, anche se poi differenti saranno l’impegno e i risultati dei vari partecipanti.
Già questa situazione ci pone lontani a mille miglia dall’alcolista che da 20 anni continua a ubriacarsi negando di essere alcolizzato, o da quello che butta tutto il suo stipendio (o quello della moglie, o la pensione dei genitori) ad una slot machine, simile al topo della Skinner-box. Con la differenza che il topo, poverino, vi era costretto e non aveva nessuna alternativa.

2)      Per lo stesso motivo su citato, le persone partecipanti sono disposte, così come hanno pagato per partecipare, a mettere in atto, in pratica, le prescrizioni, i suggerimenti del conduttore. Parlo di gruppi tendenzialmente ristretti, con poche persone, massimo qualche decina, con queste caratteristiche:
a.     Il conduttore/la conduttrice è una persona che ha passato molti anni nella ricerca, può avere limiti, difetti, ma è sinceramente interessato/a a fare del bene, non sfruttare, speculare, ingannare, approfittare degli altri
b.     Fa le cose alla luce del sole, è una cosa aperta, nulla di nascosto, di oscuro, illegale,[1] ecc.
c.      C’è una conoscenza diretta e reciproca tra lui e tutti gli altri, non è una situazione tipo telepredicatori americani dove il ciarlatano di turno fa un sermone in tv al termine del quale ti chiede dei soldi per la gloria di Dio!
d.    Dal gruppo si esce con dei compiti, con qualcosa da fare per migliorare la propria vita. E ovviamente più vi si crede, più si è ottimisti, più questo potrà diventare un fattore di cambiamento, anche permanente.

3)    La stessa partecipazione al gruppo implica un salto, per cui si smette, anche solo per qualche giorno, di essere solo ed esclusivamente (per esempio) la mammina sacrificata o l’impiegata/o o fidanzata/o zerbino che si fa trattare male da tutti, o ci si stacca da un ambiente/famiglia oppressivi e schiaccianti, o si è costretti a interrompere una routine, una dipendenza, fisica e/o psicologica, e/o affettiva. Questo già da solo può essere un’esperienza emozionale correttiva, una specie di nuovo chip acquisito, una capacità che non si riteneva di avere, e che resterà a disposizione per il futuro, pronto lì, per essere usato, se solo lo si vorrà.

4)    La questione del conscio e dell’inconscio. Sono anti-psicoanalisi, non ritengo che nella maggioranza dei casi i presunti e pretesi lunghi viaggi nell’inconscio decennali, ventennali, trentennali facciano bene, in quanto a mio avviso tendono a fare sprofondare ancor più le persone nelle loro sofferenze, anziché fargli affrontare la realtà.
Non è possibile imparare a nuotare se non ci si entra in mare, o in piscina.
Tuttavia in molti di questi casi viene realizzata una auto esplorazione, facilitata dall’esterno, che in persone che magari da decenni (o da sempre) l’hanno sistematicamente rifuggita, può essere utile. Un’esplorazione delle dinamiche familiari, dei modi con cui ci si difende dall’ambiente esterno, (o lo si attacca per difendersi!), sui desideri che non sono realmente nostri ma che abbiamo assunto dagli altri e che roboticamente cerchiamo di realizzare, così come quelli che invece sono (o erano) nostri davvero e che abbiamo messo in cantina (o in soffitta), le nostre identificazioni con questo o quel ruolo di macho, o di femminuccia timorosa, o di rivoluzionario duro e puro, o di malato, i vantaggi che senza renderci conto abbiamo da questa o quella situazione, i cambiamenti anche gioiosi che così ci precludiamo perché ogni novità per la mente è fonte di ansia, ecc.
Ovviamente c’è anche chi può fare disastri in questo, ma questo può valere anche con uno psicoanalista, con un amico, un fidanzato, un libro, ecc.
Ma se questa auto-esplorazione dura un tempo breve ed è finalizzato al cambiamento, anziché aspettare decenni che l’inconscio sia lavato con la candeggina (che tra l’altro inquina!) prima di poter cambiare le cose, e se tutto non si riduce a un mero vittimismo per cui gli altri ci hanno fatto male e non è possibile uscirne, questa auto-esplorazione può veramente essere utile.
L’unico esempio che voglio qui portare è quello delle psico-magie di Jodorowsky, che può costituire un esempio paradigmatico.
Jodorowsky prima ascolta, in breve, il racconto della vita e il problema i/problemi del partecipante, fa una riflessione e poi gli assegna una psico-magia, con la quale, in qualche modo, egli si dovrà occupare di sé, dovrà uscire dal suo loop, dal suo circolo vizioso, ridando nuove informazioni alla propria mente/cervello. (Non mi soffermo qui sulla questione mente/cervello…).
In molti casi,- questo è solo uno dei tanti esempi -, l’aspetto magico, rituale, new age, spirituale, chiamiamolo come vogliamo, possono mettere in scacco i giochi della mente, che per definizione mente e vuole sempre restare uguale a se stessa, anche la mente di quello che da decenni si tira martellate sui piedi (in fondo chi fuma non fa niente di molto diverso).
Se il terapeuta/conduttore/curatore/guaritore dicesse a Giovanni: tu fai così perché ti è successo questo, devi invece fare così per dirti che sei cambiato e che quello che ti era successo non può più influire su di te, o devi dire a quello/a/i di non comportarsi più così, o devi smettere di drogarti o di ubriacarti o di arrabbiarti o di farti picchiare perché dentro di te c’è Dio, sei il tempio di Dio, e perché così ti ammali ecc. ecc., la mente risponderebbe semplicemente come ha sempre risposto a tutti gli amici o le amiche o i fidanzati o i figli o i genitori che gli hanno sempre detto di fare qualcosa di diverso.
Ci vuole qualcosa che bypassi la mente, qualcosa che risolva il problema con un tipo di pensiero diverso da quello che lo ha creato, come diceva Einstein.

5)    Last but not least, il fattore comunità/rete sociale. Preciso che ho elencato questi elementi non in ordine di importanza ma provando a seguire il filo del discorso, ovviamente su ognuno gli elementi qui elencati incideranno in modo diverso, a  seconda del tipo di problema/situazione, della loro psicologia, dell’età, forza, comprensione, resistenza, sensibilità, personalità, ecc.
La questione della rete sociale è anche quella in gran parte determinante nel successo di molte “nuove religioni”, o che sono nuove magari per noi, non per altri, anche se già presenti nella nostra (o altrui) cultura da secoli o millenni, ma prima non le avevamo mai prese in considerazione. Ma vale anche per fenomeni come le comunità di ex-tossicodipendenti. In ogni nuovo gruppo uno trova persone “nuove”, a cui lui stesso/lei stessa può presentarsi come nuovo, sicuramente più libero dagli stereotipi e i ruoli a cui lo costringono famiglia, lavoro, amici, ecc. Anche per questo più si partecipa da soli e lontani dall’ambiente abituale, più si può essere autentici e andare in profondità.
Molte persone riescono, abbracciando una nuova religione, o qualche gruppo religioso, a liberarsi dall’alcool, dalla droga, dal gioco, dalla depressione, da varie malattie/problemi/disfunzioni fisiche, mentali, psicosomatiche.
Ovviamente non dimentico il fanatismo e bigottismo esasperante, e le rapine economiche, che contraddistingue alcuni di questi, ma non è questo l’oggetto del discorso. Qui prendo in considerazione i fattori curativi dei gruppi, tra cui possono esserci quelli religiosi, non per questo assolvo i gruppi o sette in cui si annidano forme fascistoidi, reazionarie, integraliste, o truffe sistematizzate.

Un nuovo gruppo di persone che si comincia a frequentare:
a.     Ci può far sentire più amati, apprezzati, possiamo trovare amici che prima non avevamo, mentre prima eravamo soli o male accompagnati, una rete sociale che ci aiuta.
b.    Può portare a una nuova relazione.
c.      Può dare un senso alle nostre giornate, financo alla nostra vita.
d.    Può farci perseguire insieme ad altri un progetto che riteniamo magnifico.
e.      Per seguire questo progetto potremo trovare la forza di abbandonare i vecchi schemi, anche perché magari questi sono in contraddizione coi nuovi, per cui o accettiamo le regole del nuovo gruppo, oppure niente.
f.      Possiamo noi stessi prenderci cura degli altri nel gruppo, e già questo è di grande aiuto e ci fa sentire certamente migliori e più buoni. (Help therapy).

Questo vale non solo per molti gruppi religiosi (o anche pseudo-religiosi), ma anche per gruppi più rilassati e gioiosi, come potrebbero essere, per esempio, un gruppo di ballo, uno che va a fare foto per le città, gruppi di viaggio o sportivi.
Ovviamente nessuno andrà a proporre il tango o il fox-trotten come cura per i mali del mondo, anche perché sarebbero per primi i suoi compagni tangheri o fox-trottari (come si dice?) a dargli del matto, -anche se l’anima il tango un po’ l’anima la cura…-, però partecipare a un gruppo nuovo, per tutte le ragioni su elencate, può essere d’aiuto e risanante.
E questo può avvenire, anche se in modo più spontaneo e meno strutturato, anche nei gruppi “di guarigione”.


[1] Mi riferisco ovviamente a realtà democratiche, per esempio non la Cina dove i praticanti del Falun Gong vengono torturati e uccisi in quanto considerati oppositori…