martedì 30 aprile 2013

Attacchi di panico: capirne il perché o uscirne?




Gli attacchi di panico sono uno dei problemi oggi più diffusi.

A tutte le fasce d’età. In uomini e donne. Ragazzi e ragazze.

Purtroppo una delle cose che più tendono a mantenerli sono proprio le tentate soluzioni. E’ questa una delle idee fondamentali della terapia familiare e sistemica, e in particolare della terapia strategica. Non possiamo sempre sapere il perché c’è qualcosa che non va. Il saggio taoista dice che la vera salute, come sempre il simbolo del Tao ci illustra, (il cerchio con le due metà nere e bianche che sfumano una nell’altra), non è la salute sempre perfetta.
E’ questo un mito che torna utile solo alle industrie farmaceutiche, e a certi medici e psicologi in quanto, alla ricerca di questa salute perfetta, assumiamo farmaci e intraprendiamo cure (o facciamo operazioni), che spesso ce la rovinano davvero.

La vera salute è una continua oscillazione tra salute e non salute, là dove per non salute ovviamente non si intendono malattie gravi e niente che ci impedisca di tornare presto a uno stato di completo benessere.

Normalmente ci preoccupiamo forse in modo eccessivo di ogni mal di pancia o mal di testa? L’importante è che ci passi. In realtà ogni mal di pancia o mal di testa è un segnale che il corpo ci dà, di qualcosa che stiamo facendo o abbiamo fatto che non va. (Troppo freddo, troppo al computer o alla tivù o comunque davanti a uno schermo, eccessivo sforzo dei muscoli del collo, alimentazione eccessiva e pesante, aria condizionata, stanchezza, mancanza di riposo, sforzo eccessivo, stress, rumori, troppo sonno o troppo poco, ecc.)

Se siamo sensibili al nostro corpo capiamo questo qualcosa e ristabiliamo le condizioni ottimali, anziché nascondere la segnalazione che il corpo ci dà con analgesici. Ma questo non è detto. Possiamo anche non capire il perché, l’importante è non preoccuparcene eccessivamente, e che ci passi. Se non ci passa, ovviamente non dobbiamo trascurare questo maggior segnale d’allarme, che ci indica che siamo ancora soggetti a qualcosa che non funziona per il meglio.

Paradossalmente, se sdrammatizzassimo degli iniziali attacchi di panico, non facendoci attaccare delle etichette di malati psichiatrici talvolta anche per uno solo di essi, non sarebbero così diffusi e non diverrebbero così invalidanti come diventano per alcuni/e. Su questo lucra l’industria farmaceutica, che fa passare alla televisione messaggi per cui gli attacchi di panico sono un problema psichiatrico tout court e che si curano solo coi farmaci.

Quello che già Cassano e gli psichiatri biologisti stanno ormai portando avanti da tempo anche con la depressione, paragonando gli antidepressivi all’insulina per i diabetici, quindi da prendere a vita. 
Un paragone secondo me delirante, disonesto e antiscientifico.

Ho avuto modo di confrontarmi su questo anche con persone di elevato livello culturale e purtroppo questo tipo di messaggio è stato così bombardante e potente che spesso ha fatto presa. (In modo simile del resto con quello che è successo con la disfunzione erettile dove ormai si pensa quasi solo a protesi e pompette, o più semplicemente cialis e viagra, escludendo ogni comprensione psicologica del problema).

Tutto ciò non solo contribuisce a una profezia che si auto avvera, ma pone le premesse per una maggiore ansia: “la paura della paura”.
Chi non verrebbe preso dall’angoscia, o meglio, da un ansia che diventa angoscia, se lo si convince che se gli viene l’ansia è in quanto tale un malato e ne resterà prigioniero a vita?
Immaginiamo di andare sulle montagne rosse, o giostre simili. Sappiamo che questo ci provocherà, a chi più a chi meno, dei vuoti di stomaco e persino degli attimi di terrore, ma in fondo è quello che ci cerchiamo salendo sulle giostre, per la loro funzione più o meno catartica. 
Ora, immaginiamo per un attimo che tutti quelli che sono intorno a noi, che vanno anche loro sulle montagne russe, ci dicano, ci convincano, e/o siano stati essi stessi convinti, per una serie di ragioni, che è anormale, o patologico, o da malati, provare quei "sintomi". Immaginiamo che tutti ci convincano di questo, persino quelli stessi che provano gli stessi nostri sintomi, anche se sono molti, moltissimi. Del resto, loro stessi a loro volta erano stati convinti che sia grave avere anche un solo 'attacco', che sia un fenomeno puramente chimico e che non se ne esce senza farmaci, e sarà destinato a durare a vita. Anzi, che dovremo prendere per sempre farmaci, per non averli mai più.
Lo stesso tipo di fenomeno, di manipolazione e strumentalizzazione, e di patologizzazione, per qualità e quantità, viene oggi applicato sistematicamente a ogni cosa che si discosti dalla media, dalla norma, dal solito, per la timidezza e per la tristezza, per l'ansia come per ogni difficoltà sessuale oppure per l'insonnia, (non apriamo qui l'orrendo capitolo dell'ADHD, il cosiddetto disturbo da deficit dell'attenzione, grazie al quale milioni di bambini sono drogati a vita...), come del resto si fa altrettanto subdolamente in medicina con la pressione, col colesterolo, con ogni presunto problema digestivo o dell'apparato escretore, ecc.
Ma tornando alle difficoltà psicologiche, e in particolare a tutti gli stati ansiosi, il ricorso a lungo termine a psicofarmaci, e soprattutto la convinzione che non se ne possa fare a meno è l’ultimo corollario di tutta la catena.

E di catena trattasi, infatti.

In realtà negli attacchi di panico sono coinvolti la nostra respirazione, il nostro sistema circolatorio e lo stesso battito cardiaco, collaboranti in un quadro di estrema raffinatezza e complessità.
Il problema degli attacchi di panico non sono i sintomi fisici di per sé, ma il panico da essi scatenato. Tutti abbiamo determinate vulnerabilità, fisiche e psicologiche, chi è soggetto a questi è più sensibile e vulnerabile a questo tipo di problematica, ma non merita per questo che gli si appiccichi una sgradita e indelebile etichetta.
Panico viene dal greco pan, che indica qualcosa di totalizzante, che non lascia spazio a nient’altro.

Si può però aiutare chi soffre di attacchi di panico a riprendere il controllo della propria vita imparando a liberarsi dagli/degli attacchi di panico, non andando per anni alla ricerca infinita della presunta causa/e, (ricerca che non fa che ravvivarli e a lungo andare peggiorarli), non imbottendosi di medicine, non organizzando la propria vita dipendendo da essi.

In questo processo, come in tutte le terapie strategiche, non è importante scoprire la causa originaria, assunto epistemologico di tipo ottocentesco che spesso complica, anziché risolvere i problemi (e non solo in psicologia!) che non si può mai conoscere con certezza, e che anche se si conoscesse, non ci libererebbe dal problema.

La razionalità, o la presunta conoscenza sono una cosa, i comportamenti e le emozioni un’altra. 

Il problema non è capirne la causa originaria, ma uscire dalla paura che ci può portare a condizionare pesantemente le nostre vite, a rinunciare alla libertà di cui godevamo prima. E’ qualcosa che travalica la sintomatologia in sé, ma va a coinvolgere l’intero sistema di vita di chi, senza volerlo e senza rendersene conto,ha finito per costruirsi attorno una ragnatela in cui è rimasto intrappolato/a.

Bibliografia essenziale

Non c'è notte che non veda il giorno,
Nardone, Ed. Ponte Alle Grazie

Oltre i limiti della paura,
Nardone, Ed. Ponte Alle Grazie

Terapia breve strategica,
Watzlawick, Nardone, Ed. Cortina

Manuale di sopravvivenza per psico-pazienti,
Nardone, Ed. Tea

Paura, panico, fobie,
Nardone, Ed. Ponte alle Grazie

L'Arte del cambiamento,
Watzlawick, Nardone, Ed. Tea



Terapia Breve Strategica

Autore: Watzlawick P., Nardone G.
- See more at: http://www.giorgionardone.it/pubblicazioni.php#sthash.Uw30vwBK.dpuf

sabato 27 aprile 2013

Sui gruppi di cambiamento



Mi è capitato di riflettere in questi giorni su tanti gruppi che si fanno, a cui si partecipa, con una intenzione e un proponimento di cambiamento, di stare meglio, più felici, o, se proprio vogliamo usare un’espressione al negativo, ma non dovremmo, per soffrire meno.
E mi sono apparse chiare molte dinamiche e meccanismi positivi che questi gruppi possono avere in comune, a prescindere dalla loro origine, estrazione sociale o culturale, da ciò che di particolare in essi viene fatto o suggerito.
Mi spiego meglio. Immaginiamo che ci siano 100 persone; per fare un esempio più significativo, diciamo 100 persone in stato di sofferenza, per un motivo o per l’altro.
Ovviamente a questi gruppi partecipa anche a chi sta bene o relativamente bene, ma il mio discorso verte proprio sulla questione del cambiamento, per cui immaginiamo di prendere, ad esempio 100 persone “che soffrono”.
Di questi 100, 50 partecipano a vari gruppi, e altri 50 no.
Immaginiamo che dei 50 non partecipanti (il gruppo di controllo), di qui a sei mesi, o un anno o più, 10 miglioreranno, 10 continueranno sempre nello stesso modo, e 30 peggioreranno. Ovviamente questo non è un esperimento, non vi è statistica, punto di significatività, follow up, campionamento, ecc. E’ solo una mera speculazione psico-filosofica, in cui però provo a evidenziare alcuni punti in comune protagonisti e creatori di cambiamento nei gruppi. Perché immagino che nel gruppo dei 50 che non partecipano a un gruppo 30, cioè la maggioranza, peggiorerà? Per il semplice motivo che se prendo delle persone che stanno male, o perché depresse, o bulimiche, o dipendenti da droghe, dal gioco o dall’alcool, o invischiate in relazioni sadomasochiste, o per mille altri motivi, se questi/e non fanno nulla per uscirne, né gruppi, né terapie di alcun tipo, per il corpo o per la mente, né si rivolgono ad alcun interesse o passione che li distolga dalla loro auto-distruzione, non potremo aspettarci che miglioreranno!
Come dice Battiato, e i buddisti, se vuoi sapere cosa sarai domani guarda quello che fai (e quello che pensi) oggi!
Degli altri 50 che partecipano a vari gruppi, immaginiamo che 5 peggiorino, 15 restino invariati e 30 migliorino, poco o molto.
Ripeto, non è un esperimento e non mi baso su alcuni dati reali, voglio solo evidenziare dei punti in comuni possibili fattori di cambiamento.

Entriamo dunque nel vivo di quest’analisi.
10 fanno il gruppo “Heidi”, 10 il gruppo “Goldrake”, 10 il gruppo “Remì”, 10 il “Capitan Harlock” e 10 il “Paperino”.
Ovviamente non rientrano tra questi nessun gruppo autolesionista e autodistruttivo, che aizzi all’odio o all’aggressività, ecc. Gruppi che pure esistono, purtroppo, ma che escludo a priori da questi che chiamerò “gruppi di guarigione”.
Sono 5 gruppi molto diversi, di diversa origine culturale, hanno costi diversi, il livello economico, sociale e culturale sia dei partecipanti che dei conduttori può essere anche molto diverso. Alcuni sono più efficaci, altri meno, ma comunque complessivamente hanno un effetto positivo. Perché?

1)      L’elemento dell’aspettativa/suggestione/placebo, senza qui soffermarci a sottilizzare sulla differenza tra l’uno e l’altro. Il “placebo” non è una parolaccia, ma è comunque un qualcosa che seppure “dettato dalla mente”, può avere effetti reali, realissimi, tanto positivi, se è un placebo positivo, quanto negativi, se è un placebo negativo, (nocebo).
Sta ai terapeuti, di ogni tipo e parte del mondo, e in questi casi ai conduttori, sfruttarlo positivamente e ampliarne le possibilità. Ma in ogni situazione in cui si decide di cambiare, e questo vale ovviamente non solo per i gruppi ma anche per le terapie individuali, che siano basate sulla parola o sul corpo, cure naturali, ecc., c’è un qualcosa che si mette in moto nelle persone finalizzate al cambiamento, una leva che le spinge a migliorare, a migliorarsi, e all’ottimismo.
Del resto è una cosa lapalissiana: se uno fa qualcosa per cambiare è perché vuole/è disposto/accetta di dover migliorare qualcosa, anche se poi differenti saranno l’impegno e i risultati dei vari partecipanti.
Già questa situazione ci pone lontani a mille miglia dall’alcolista che da 20 anni continua a ubriacarsi negando di essere alcolizzato, o da quello che butta tutto il suo stipendio (o quello della moglie, o la pensione dei genitori) ad una slot machine, simile al topo della Skinner-box. Con la differenza che il topo, poverino, vi era costretto e non aveva nessuna alternativa.

2)      Per lo stesso motivo su citato, le persone partecipanti sono disposte, così come hanno pagato per partecipare, a mettere in atto, in pratica, le prescrizioni, i suggerimenti del conduttore. Parlo di gruppi tendenzialmente ristretti, con poche persone, massimo qualche decina, con queste caratteristiche:
a.     Il conduttore/la conduttrice è una persona che ha passato molti anni nella ricerca, può avere limiti, difetti, ma è sinceramente interessato/a a fare del bene, non sfruttare, speculare, ingannare, approfittare degli altri
b.     Fa le cose alla luce del sole, è una cosa aperta, nulla di nascosto, di oscuro, illegale,[1] ecc.
c.      C’è una conoscenza diretta e reciproca tra lui e tutti gli altri, non è una situazione tipo telepredicatori americani dove il ciarlatano di turno fa un sermone in tv al termine del quale ti chiede dei soldi per la gloria di Dio!
d.    Dal gruppo si esce con dei compiti, con qualcosa da fare per migliorare la propria vita. E ovviamente più vi si crede, più si è ottimisti, più questo potrà diventare un fattore di cambiamento, anche permanente.

3)    La stessa partecipazione al gruppo implica un salto, per cui si smette, anche solo per qualche giorno, di essere solo ed esclusivamente (per esempio) la mammina sacrificata o l’impiegata/o o fidanzata/o zerbino che si fa trattare male da tutti, o ci si stacca da un ambiente/famiglia oppressivi e schiaccianti, o si è costretti a interrompere una routine, una dipendenza, fisica e/o psicologica, e/o affettiva. Questo già da solo può essere un’esperienza emozionale correttiva, una specie di nuovo chip acquisito, una capacità che non si riteneva di avere, e che resterà a disposizione per il futuro, pronto lì, per essere usato, se solo lo si vorrà.

4)    La questione del conscio e dell’inconscio. Sono anti-psicoanalisi, non ritengo che nella maggioranza dei casi i presunti e pretesi lunghi viaggi nell’inconscio decennali, ventennali, trentennali facciano bene, in quanto a mio avviso tendono a fare sprofondare ancor più le persone nelle loro sofferenze, anziché fargli affrontare la realtà.
Non è possibile imparare a nuotare se non ci si entra in mare, o in piscina.
Tuttavia in molti di questi casi viene realizzata una auto esplorazione, facilitata dall’esterno, che in persone che magari da decenni (o da sempre) l’hanno sistematicamente rifuggita, può essere utile. Un’esplorazione delle dinamiche familiari, dei modi con cui ci si difende dall’ambiente esterno, (o lo si attacca per difendersi!), sui desideri che non sono realmente nostri ma che abbiamo assunto dagli altri e che roboticamente cerchiamo di realizzare, così come quelli che invece sono (o erano) nostri davvero e che abbiamo messo in cantina (o in soffitta), le nostre identificazioni con questo o quel ruolo di macho, o di femminuccia timorosa, o di rivoluzionario duro e puro, o di malato, i vantaggi che senza renderci conto abbiamo da questa o quella situazione, i cambiamenti anche gioiosi che così ci precludiamo perché ogni novità per la mente è fonte di ansia, ecc.
Ovviamente c’è anche chi può fare disastri in questo, ma questo può valere anche con uno psicoanalista, con un amico, un fidanzato, un libro, ecc.
Ma se questa auto-esplorazione dura un tempo breve ed è finalizzato al cambiamento, anziché aspettare decenni che l’inconscio sia lavato con la candeggina (che tra l’altro inquina!) prima di poter cambiare le cose, e se tutto non si riduce a un mero vittimismo per cui gli altri ci hanno fatto male e non è possibile uscirne, questa auto-esplorazione può veramente essere utile.
L’unico esempio che voglio qui portare è quello delle psico-magie di Jodorowsky, che può costituire un esempio paradigmatico.
Jodorowsky prima ascolta, in breve, il racconto della vita e il problema i/problemi del partecipante, fa una riflessione e poi gli assegna una psico-magia, con la quale, in qualche modo, egli si dovrà occupare di sé, dovrà uscire dal suo loop, dal suo circolo vizioso, ridando nuove informazioni alla propria mente/cervello. (Non mi soffermo qui sulla questione mente/cervello…).
In molti casi,- questo è solo uno dei tanti esempi -, l’aspetto magico, rituale, new age, spirituale, chiamiamolo come vogliamo, possono mettere in scacco i giochi della mente, che per definizione mente e vuole sempre restare uguale a se stessa, anche la mente di quello che da decenni si tira martellate sui piedi (in fondo chi fuma non fa niente di molto diverso).
Se il terapeuta/conduttore/curatore/guaritore dicesse a Giovanni: tu fai così perché ti è successo questo, devi invece fare così per dirti che sei cambiato e che quello che ti era successo non può più influire su di te, o devi dire a quello/a/i di non comportarsi più così, o devi smettere di drogarti o di ubriacarti o di arrabbiarti o di farti picchiare perché dentro di te c’è Dio, sei il tempio di Dio, e perché così ti ammali ecc. ecc., la mente risponderebbe semplicemente come ha sempre risposto a tutti gli amici o le amiche o i fidanzati o i figli o i genitori che gli hanno sempre detto di fare qualcosa di diverso.
Ci vuole qualcosa che bypassi la mente, qualcosa che risolva il problema con un tipo di pensiero diverso da quello che lo ha creato, come diceva Einstein.

5)    Last but not least, il fattore comunità/rete sociale. Preciso che ho elencato questi elementi non in ordine di importanza ma provando a seguire il filo del discorso, ovviamente su ognuno gli elementi qui elencati incideranno in modo diverso, a  seconda del tipo di problema/situazione, della loro psicologia, dell’età, forza, comprensione, resistenza, sensibilità, personalità, ecc.
La questione della rete sociale è anche quella in gran parte determinante nel successo di molte “nuove religioni”, o che sono nuove magari per noi, non per altri, anche se già presenti nella nostra (o altrui) cultura da secoli o millenni, ma prima non le avevamo mai prese in considerazione. Ma vale anche per fenomeni come le comunità di ex-tossicodipendenti. In ogni nuovo gruppo uno trova persone “nuove”, a cui lui stesso/lei stessa può presentarsi come nuovo, sicuramente più libero dagli stereotipi e i ruoli a cui lo costringono famiglia, lavoro, amici, ecc. Anche per questo più si partecipa da soli e lontani dall’ambiente abituale, più si può essere autentici e andare in profondità.
Molte persone riescono, abbracciando una nuova religione, o qualche gruppo religioso, a liberarsi dall’alcool, dalla droga, dal gioco, dalla depressione, da varie malattie/problemi/disfunzioni fisiche, mentali, psicosomatiche.
Ovviamente non dimentico il fanatismo e bigottismo esasperante, e le rapine economiche, che contraddistingue alcuni di questi, ma non è questo l’oggetto del discorso. Qui prendo in considerazione i fattori curativi dei gruppi, tra cui possono esserci quelli religiosi, non per questo assolvo i gruppi o sette in cui si annidano forme fascistoidi, reazionarie, integraliste, o truffe sistematizzate.

Un nuovo gruppo di persone che si comincia a frequentare:
a.     Ci può far sentire più amati, apprezzati, possiamo trovare amici che prima non avevamo, mentre prima eravamo soli o male accompagnati, una rete sociale che ci aiuta.
b.    Può portare a una nuova relazione.
c.      Può dare un senso alle nostre giornate, financo alla nostra vita.
d.    Può farci perseguire insieme ad altri un progetto che riteniamo magnifico.
e.      Per seguire questo progetto potremo trovare la forza di abbandonare i vecchi schemi, anche perché magari questi sono in contraddizione coi nuovi, per cui o accettiamo le regole del nuovo gruppo, oppure niente.
f.      Possiamo noi stessi prenderci cura degli altri nel gruppo, e già questo è di grande aiuto e ci fa sentire certamente migliori e più buoni. (Help therapy).

Questo vale non solo per molti gruppi religiosi (o anche pseudo-religiosi), ma anche per gruppi più rilassati e gioiosi, come potrebbero essere, per esempio, un gruppo di ballo, uno che va a fare foto per le città, gruppi di viaggio o sportivi.
Ovviamente nessuno andrà a proporre il tango o il fox-trotten come cura per i mali del mondo, anche perché sarebbero per primi i suoi compagni tangheri o fox-trottari (come si dice?) a dargli del matto, -anche se l’anima il tango un po’ l’anima la cura…-, però partecipare a un gruppo nuovo, per tutte le ragioni su elencate, può essere d’aiuto e risanante.
E questo può avvenire, anche se in modo più spontaneo e meno strutturato, anche nei gruppi “di guarigione”.


[1] Mi riferisco ovviamente a realtà democratiche, per esempio non la Cina dove i praticanti del Falun Gong vengono torturati e uccisi in quanto considerati oppositori…