domenica 29 gennaio 2012

IL VANTAGGIO DI ESSERE DEPRESSI/E, ASOCIALI, APATICHE/I E FUMATORI/TRICI

Ogni tanto penso che vita beata hanno i/le depressi/e che si svegliano in tarda mattina o il pomeriggio, (a prescindere naturalmente dagli incubi che hanno avuto la notte), e già ricominciando a soffrire per il fatto di essere vivi, riprendono a fumare, per ammazzare il tempo, con l’unica speranza di riaddormentarsi presto, e magari di non risvegliarsi mai più. E sì, perché pensate che vita semplice è mai questa.
Non lo immaginereste ma quest’idea mi è scaturita leggendo dei giornali.
Non un giornale, ma dei giornali. Sì dà il caso che purtroppo io sia un po’ ossessivo e collezioni vari giornali per selezionarne gli articoli più interessanti, leggerli e se lo meritano conservarli. E cosa c’entra mai questo con la depressione, direte voi?
C’entra, perché bastano pochi giornali (per non parlare di internet), per ricordarci quanto vario e ricco e immenso e bello sia il mondo, pur con tutte le sue storture, le deviazioni e le aberrazioni che in esso vi sono. Mi basta leggere di un concorso letterario per ricordarmi che dovrei trascrivere sul computer una trentina di quaderni scritti a penna, tra tanta immondizia qualcosa di carino potrò pur avere scritto da mandare a un concorso no? Beh se per questo mi basterebbe rivedere e correggere il migliaio di pagine scritto in passato, anche lì ci sarà pure qualcosa di bello no?
Pensate che se fossi stato solo depresso a piangermi addosso e a fumare, non avrei scritto nulla. D’altra parte, non ho mai imparato a fumare. Poi spesso gli articoli ritagliati restano lì ad ammuffire e ne leggerò solo qualcuno. Non perché non m’interessino, m’interessano invece. Ma m’interessano altrettanto qualche decina di libri che già ho, e che dovrei leggere da una vita, e non parliamo di quelli che dovrei comprare… Uno dei miei episodi preferiti de “I confini della realtà” è in una vecchissima serie, con un impiegato di banca che s’imboscava ovunque pur di starsene a leggere per i fatti suoi, sia al lavoro che in famiglia. Tutti lo criticavano per questo. Ma io posso capirlo bene. Per me entrare in una libreria è un problema perché se solo penso a quante cose interessanti, dalla storia alla psicologia, dalla filosofia alla spiritualità alla meditazione alla sessuologia al teatro al cinema alla fotografia, meriterebbero di essere lette, davvero mi deprimo. Starsene a letto a piangere e fumare è una cosa infinitamente più semplice. L’unico palliativo che posso adottare è entrare in una libreria quando so già quale libro acquistare, un libro che per qualche misteriosa alchimia ha superato la concorrenza tra altri milioni di volumi, prenderlo e subito andare alla cassa con gli occhi semichiusi, per non farmi catturare dagli altri (libri). Devo dire che anche questo risulta molto difficile perché nonostante questa strategia l’occhio può comunque cadere su uno scaffale con un libro accattivante che un impiegato infingardo ha piazzato con la copertina frontalmente, così che se il titolo e la copertina mi vincono, posso tutt’al più resistere al momento, ma presto ritornerò a comprarlo.
E a proposito di cinema, di teatro, di fotografia, che dire allora delle mostre e degli spettacoli? La cultura è così immensa che è un vero problema saper e dover scegliere tra migliaia di mostre, di spettacoli, di film, dai cinema d’essai alle mostre di arte contemporanea in cui non si capisce un tubo, alle retrospettive del Caravaggio agli spettacoli del teatro di ricerca, classico, il cabaret, la clownerie, di strada, la giocoleriai... per questo la vita ideale non è solo quella del depresso fumatore: è meglio se il depresso fumatore è ignorante. Più ignorante è, meglio è. Non nel senso di ignorante come sprovvisto di titoli di studio o di bagagli nozionistici, ma nel senso che non abbia alcuna curiosità per il mondo, per alcuna arte, alcuno sport, alcuna attività e ovviamente per alcun’altra persona. Infatti, già abbiamo parlato degli sterili e morti libri e di appena un po’ più vivi spettacoli, mostre e film, ma pensate quale problema sarebbe vivere per uno che fosse interessato a praticare degli sporti, che sia il chickboxing o l’alpinismo, la vela o il tiro con l’arco, il calcio o il ciclismo. Basterebbe uno solo di questi interessi, la musica o la scrittura o la lettura, il cinema o la fotografia, l’atletica  o lo sci di fondo, per riempire non una, ma decine di vite. Pensate quale dramma, quale angoscia, quale tormento per chi di questi interessi ne avesse più d’uno, 3, 5, 10? Dovrebbe vivere fino a mille anni per poterli  soddisfare, solo in minima parte.
E sempre con l’insoddisfazione di non leggere o scrivere o suonare o comporre o boxare o ballare o biciclettare o fotografare o dipingere abbastanza.
Volete mettere con la serenità dello svegliarsi a letto e piangere, sempre contornati dalla meravigliosa aureola della sigaretta, con la speranza aggiuntiva che essa possa accorciarci ulteriormente la vita?
E non abbiamo detto ancora nulla. Perché non abbiamo ancora  ricordato da quale peggiore sventura il depresso psicotico si salvi. Il rapporto con gli altri e con il mondo.

mercoledì 25 gennaio 2012

Recensione "The Artist"


Premessa: è una recensione dove racconto abbastanza. Poiché NON voglio danneggiare il film, leggetela solo se l'avete già visto, o comunque se non è più in proiezione dove abitate. 
15  1
La storia di George Valentine è una splendida metafora sulla comunicazione. Egli non solo finisce la sua carriera con l’avvento del cinema sonoro, quindi un crollo professionale, ma anche il suo crollo umano e sentimentale è dovuto alla sua incapacità/non volontà di rapportarsi agli altri.
Il suo cane, che non è dotato di parola, significativamente “parla” molto più di lui, ed ha per questo un ruolo essenziale nell’economia del film. E’ come se fosse il suo angelo custode, o la parte più saggia di sé: è lui che gli salva la vita, riuscendo a convincere un poliziotto stupido e testardo ad accorrere all’incendio dove il suo padrone sta morendo.
Quando sua moglie, con la quale non c’è più alcun rapporto da anni, se mai c’è stato, gli dice: “Dobbiamo parlare”, lui nicchia, si trincera dietro lo stesso silenzio del suo cinema muto.
Quando la donna che lo ama gli lascia il suo numero di telefono perché la chiami, lui non lo fa, lei lo rincorre per anni ma lui è chiuso nel suo naricisismo, ritenendola per giunta colpevole della sua fine artistica, lei che del cinema sonoro ha fatto la sua fortuna.
Lui rifiuta di parlare sia con chi lo ama, che non lascia neanche entrare in casa quando lo va a trovare, sia con sua moglie con cui non c’è più alcun affetto, e realizza un film muto in cui dichiara alla donna con cui sta di non amarla, mentre viene inghiottito dalle sabbie mobili.
Rifiuta anche di adattarsi o perlomeno di provare, di cimentarsi, di cercare un compromesso col nuovo cinema sonoro che si affaccia all’orizzonte.
Chiuso nella sua depressione e autocommiserazione narcisistica, persino dopo che la protagonista lo accoglie amorevomente a casa sua e gli dichiara il suo amore, torna in quel che resta del suo appartamento in rovina e si accinge al suicidio, anche stavolta frenato e ostacolato dall’amorevole cane.
Il rumore è sinonimo di comunicazione: nel suo incubo ogni suono gli incute il terrore, e il suono è per lui comunicare. Comunicare ci costringe a confrontarci, a prendere atto di quello che va e di quello che non va, a uscire da noi stessi, dal nostro cubicolo narcisistico, a riconoscere quello che vogliamo e quello che non vogliamo, quello che desideriamo e che non desideriamo, quello che facciamo perché vi siamo spinti dalle circostanze, dalle consuetudini, dalla società (come un matrimonio fallito), oppure perché lo vogliamo, perché lo vuole la parte più profonda di noi - il cuore, l’anima, o chi per lei.
Parafrasando Woody Allen: tutto quello che avremmo sempre voluto dire e fare, ma non abbiamo mai avuto il coraggio di dire e di fare.
(L'immagine sotto è presa da facebook)





sabato 14 gennaio 2012

Psicologia del SUV


14  1
Già due giorni fa avevo scritto ieri “Psicologia del suv”, dopo avere appreso della morte di un bambino nel cortile di un asilo, investito da un suv.
Ahimé ieri si è aggiunta l’ennesima tragedia del vigile urbano, Niccolò Savarino, travolto nel modo più barbaro  e crudele da un altro suv. Il fatto che di lui e della caccia ai suoi assassini non si sia più parlato dopo l’affondamento della nave e la perdita della tripla A mi dà un motivo in più per ricordarlo.
Fortunatamente non sono un giornalista e non devo rincorrere la cronaca.
Quanto accaduto sembra l’ennesima amara conferma della pericolosità dei suv.
Nell’articolo che segue avevo parlato di un’aggressività e una competitività arcaica, inconscia, antropologica, che nel suv trova una sua manifestazione simbolica e sostitutiva.
Ma non dobbiamo dimenticare che un simile neo-carro armato in in abiti borghesi si presta a maggior ragione per crimini così barbari, quando queste auto sono acquistate o rubate da esseri che probabilmente ammazzerebbero con la stessa indifferenza a bordo di una piccola auto. Purtroppo però il volume di questi automezzi è tale da non lasciare alcuna chance di salvarsi alle vittime, come è accaduto al povero Niccolò.
Ho definito questo atto barbaro, e istintivamente anche a me vengono in mente gli aggettivi “bestiale, animalesco”. Ma anche in tal caso si tratta solo di condizionamenti. Condizionamenti storico-linguistici.
Se ci pensiamo bene, probabilmente nessun popolo barbaro ha mai compiuto, in termini quantitativi, gli stessi massacri, genocidi, invasioni, schiavizzazioni di massa, come i popoli “civilizzati”, anche se alcuni di questi hanno subito la condanna della storia, altri continuiamo a ricordarli come nostri progenitori e persino esempi.

lunedì 2 gennaio 2012

Stai sconnesso!

13   11   2011
Anche e soprattutto i modi di dire esprimono un tempo, un clima culturale, uno Zeitgeist. “Prelevare” i soldi dal bancomat fa macabramente pensare a un prelievo del sangue. Una pubblicità diceva un prezzo specificando: “Tramonto incluso”, nella cupidigia, non tanto ironica, ahimé, di includere simbolicamente anche i tramonti tra le merci monetizzabili.
Allo stesso modo, ci è ormai stata inoculata in modo permanente questa ossessione dell’ “essere connessi”.
Gli insegnanti sanno che ormai per molti ragazzi/e è veramente difficile, almeno a ché non glielo abbiano già insegnato eroicamente i genitori, con grande costanza e grandi sacrifici, è veramente difficile per loro tenere il telefonino spento per più ore di seguito. E’ come se, nel loro inconscio, il cellulare acceso corrispondesse al loro cuore: spegnerlo equivale alla morte. Anche perché a quell’età, giustamente e normalmente, gli adolescenti e i preadolescenti in particolare, sono così legati alle dinamiche del gruppo, da un lato, e ai primi amori dall’altro, che ricevere un messaggio in ritardo può essere vissuto o da loro stessi/e o dal loro o dalla loro pretendente o spasimante come un segno di poca attenzione, di poco amore, col conseguente rischio di perdere per sempre il principe azzurro o la bella addormentata.
Ma finché questo valesse solo per gli adolescenti, e solo per il cellulare, saremmo già a buon punto.
No, il punto è un altro. Ormai, con le tecnologie wi-fi, che, ahimè si dà troppo facilmente per scontato che non diano alcun effetto sul corpo, (così come i forni a micro-onde) e, per quelli che ci credono, anche sui corpi sottili, c’è la possibilità per tutti e per tutte di essere continuamente connessi non solo telefonicamente, ma a internet.
Presto, naturalmente, chi non avrà la possibilità, o deciderà di non usufruirne, sarà considerato un troglodita, uno che si perde la cosa più bella del mondo: essere costantemente in contatto con tutto e con tutti, con tutte le notizie, tutti i giochi, tutte le partite, tutti i pettegolezzi su Belen e Corona, sul grande fratello, sulle isole dei famosi, o anche sui pettegolezzi politici che danno la (pia) illusione ai più intellettuali di essere aggiornati su qualcosa di più reale e rilevante, solo perché anziché di bestemmie, di nominati e di tronisti si parla di spread e di debito pubblico, di patrimoniali e di privatizzazioni, anche quando in realtà di essi non si sa proprio un bel nulla. Perché siamo giunti a questo punto, a questa dipendenza dal mondo esterno, e dalla possibilità che gli altri ci contattino in qualunque momento?
Beh, molto freudianamente e quindi pansessualmente, quando i cellulari non erano ancora così onnipresenti e ahimè onni-squillanti come oggi,