sabato 14 dicembre 2013

Lettera ad un genitore che vuole imporre a suo figlio (o sua figlia) la scuola sbagliata.


Gentile madre, questa lettera è reale, ma approfitto dell’occasione, visto che non è stato possibile parlarci di persona, per prendere questa singola vicenda come esempio, ahimè molto diffuso, di tutti i genitori che impongono ai figli una scuola sbagliata. L’altro giorno mi è scappata la frase, parlando con C.: “Imporre una scuola sbagliata a un figlio vuol dire rovinargli la vita”. Dopodiché lei si è messa a piangere come una fontana. Sul momento, mi sono sentito un po’ in colpa, e allora ho cercato di capire come e perché fosse avvenuto. Qualche giorno prima avevo visto che faceva davvero dei bei disegni, ed era stata lei a dirmi che avrebbe voluto andare al liceo artistico. Mi ha detto che tutta la sua famiglia ha fatto il liceo scientifico, e nell’immaginario familiare avrebbe dovuto farlo anche lei, C. Mi ha detto che lei l’ha portata in piazza Duomo a vedere che fine fanno quelli a cui piace disegnare: i madonnari, per convincerla che quella non è una strada da seguire. Ma lei, C., vedendo i madonnari “sbavava”, termine adolescenziale ma efficace, per dire che insomma le piaceva. Ciò che nelle sue (di madre) intenzioni avrebbe dovuto scoraggiarla, a lei invece piaceva. Il liceo artistico non offrirebbe uno “sbocco lavorativo”, e insomma a questo punto pare che l’unico ipotetico compromesso possibile fosse il liceo delle scienze umane, che in teoria doveva avere almeno un’ora di arte, ma poi in realtà non c’era manco questa, o meglio, c’è solo nel triennio. L’espressione “sbocco lavorativo” è purtroppo molto in voga in Italia, è ormai una frase idiomatica che si usa quando si vuole convincere qualcuno, magari un figlio, o un nipote, che non deve fare quello che gli piace, quello che vuole, quello che desidera, perché morirà di fame, in quanto non c’è uno “sbocco lavorativo”. Si può usare per convincere che sia la cosa più saggia iniziare un percorso di studi dei quali non c’importa nulla. Studiare per 5 anni - o più, male che vada, data la mancanza d’interesse-, tante materie di cui non c’importa nulla, per 5 ore al giorno, e poi altri pomeriggi a casa. Oppure intraprendere un percorso di studi universitario o parauniversitario che non ci interessa, solo perché è la strada fissata per noi, ce lo dicono papà o mamma, e insomma anche qui perché c’è un maggiore sbocco lavorativo, fosse anche il più deprimente o il più inadatto. Sbocca “qualcosa” che si accumula in un canale e deve uscire, una qualche massa informe e melmosa, intoccabile. Non sbocca un’arte, non sbocca un genio, non sbocca una meraviglia. Un talento, un’arte, una meraviglia appaiono, si manifestano, sbocciano, fioriscono, stupiscono, sorprendono, come un aquilone che inizia a volare, come un disegno non richiesto, non necessario, che nasce dal cuore da chi lo realizza. Il lavoro cui ognuno dovrebbe ambire, almeno da bambino, o da ragazzo, è quello verso il quale si è portati (o portate). 
Leggevo il 20 novembre scorso sul Corriere della Sera un bell’articolo su Flaubert. Egli era stato indirizzato dal padre a studi di legge, che lui odiava. Ecco come descriveva la sua situazione:  
“La giustizia umana”, scrisse qualche mese dopo a un amico, “è per me quello che c’è di più buffonesco al mondo, un uomo che ne giudica un altro è uno spettacolo che mi farebbe crepare dal ridere, se non mi facesse pietà… Non vedo nulla di più idiota del diritto, se non lo studio del diritto. Ci lavoro con un estremo disgusto”. Malgrado queste dichiarazioni, cominciò a studiare legge, a Rouen e nell’appartamento che aveva affittato a Parigi al numero 19 della rue de l’Est. Era furibondo. “Il diritto mi uccide – scriveva il 25 giugno 1842 a Ernest Chevalier -, mi abbrutisce, mi sconnette, mi è impossibile lavorarci. Quando sono rimasto tre ore con il naso sul Codice, durante le quali non ho capito nulla, mi è impossibile andare oltre, mi suiciderei”. “Voglio finirla prima possibile – ripeteva il 10 dicembre alla sorella Caroline -, perché non può durare più a lungo così, finirei in una condizione di idiotismo o di furore. Questa sera, per esempio, sento simultaneamente queste due piacevoli condizioni di spirito”. “Sono così irritato, così infastidito, così furioso – continuava 5 mesi dopo - . Qualche volta ho voglia di dare pugni al mio tavolo e di far volare tutto a pezzi: poi, quando l’accesso è passato, mi accorgo dalla mia pendola che ho perso mezz’ora in geremiadi, e mi rimetto ad annerire della carta e a voltare le pagine più velocemente di prima”. Bestemmiava spaventosamente, alternava ruggiti e sbadigli, pestava i piedi, gettava grida di desolazione". 
Poi si ammalò, e nel suo caso su una fortuna:
"Il padre trasformò completamente la sua vita. Lo obbligò a stare in Normandia, sotto la sorveglianza costante della famiglia, e gli impedì di continuare gli studi di diritto a Parigi. Per questo aspetto, il figlio considerava la crisi come benvenuta".

Il lavoro dovrebbe essere qualcosa per cui vivere, non qualcosa che si fa per vivere. Dovrebbe essere un amore, che fa danzare, che fa gioire. E non pensi che sia possibile solo per i lavori ampiamente remunerativi o considerati di prestigio in questa società. Questa è un'idea consumista che considera i soldi l’unico valore e che disprezza tutti i mestieri veramente utili, dagli infermieri ai cuochi, dai contadini agli spazzini. (Preferisco usare questo termine meno politicamente corretto ma più poetico). Non solo. Diceva Ungaretti che la poesia è completamente inutile. Tutta l' arte è totalmente inutile. Qualunque odontotecnico o idraulico o meccanico sono più utili dei pittori, degli scultori, dei fotografi, danzatori, musicisti, cineasti, scrittori. Ma pensi se Leonardo, o Giotto, o Michelangelo, avessero fatto i dentisti, (esistevano anche allora, per quanto diversi) i medici, gli avvocati. Se avessero pensato allo ‘sbocco di lavoro’ forse non avrebbero mai fatto quello che hanno fatto. Ma per ogni Giotto e ogni Michelangelo ci sono 1000 o 1 milione di poveracci che hanno fatto la fame, mi dirà lei, che non sono in alcun libro di storia e storia dell'arte, che non hanno fatto fortuna, e questo vale ancora oggi, per ogni regista, per ogni cantante, per ogni fotografo, per ogni Kubrick, Edith Piaf, Ansel Adams, ce ne saranno forse 10.000, 100 mila, 1 milione che avrebbero voluto diventare altrettanto grandi, altrettanto famosi... È vero. Ma innanzitutto tanti di questi, io credo la maggioranza, preferiscono essere poveri e usare la loro vita come vogliono loro, non pensando allo stipendio fisso. Vogliono lasciare il mondo più bello di quando sono arrivati, non più brutto, anche se con detrimento del loro conto in banca. Secondariamente, quanti hanno finito col fare un lavoro che non volevano, che a loro non piaceva, col quale non c'entravano niente, un puro ripiego, solo per lo stipendio fisso? La maggioranza dell'umanità, come dice giustamente Silvano Agosti ne il Discorso tipico dello schiavo -le consiglio di vederlo, è su YouTube -, non è fiorita, si è adattata semplicemente alla schiavitù planetaria. C’è una forma di barbarie, o meglio una mentalità perlomeno retrograda, che porta a fare matrimoni combinati, con mariti o mogli designati dai loro genitori prima ancora che raggiungessero l'età della ragione. È un'usanza ancora in auge in molte culture, forse nella maggioranza della popolazione mondiale, anch'essa è sorretta dall'idea che comunque i genitori "sappiano qual è il bene dei figli". "Hanno più esperienza di loro". "Un giorno i figli li ringrazieranno". Fortunatamente non è più così nel mondo occidentale e tende a scomparire anche altrove, ma è ancora molto frequente e diffusa, tra noi, questa aberrazione: il dover decidere cosa faranno i nostri figli della loro vita. O perché proiettiamo su di loro i nostri desideri, rimpianti, frustrazioni, o perché non abbiamo fiducia in loro, non crediamo che realizzeranno ciò che sentono più profondamente, o perché più semplicemente temiamo che patiranno la fame. In questo senso, la maggior parte dei genitori, senza rendersene conto, auspica per i propri figli un destino mediocre. Tirare a campare. Sbarcare il lunario. Sopravvivere. Non si pensa mai ai propri figli come come a dei geni, o più semplicemente come a degli esseri originali unici al mondo, che se lasciati liberi di esprimere le loro potenzialità faranno loro stessi qualcosa di unico al mondo. E non mi riferisco necessariamente a un'opera d'arte. Potrebbe essere un nuovo motore o una nuova scoperta, una nuova invenzione, ma in realtà anche ogni affetto, ogni figlio o famiglia, ogni genitore, ogni uomo e ogni donna sono essi stessi unici al mondo... Quindi non si senta criminalizzata. L'errore che, secondo me, sta commettendo lei, in buona fede e con tutto l'amore di un genitore, che comunque non è infallibile, lo commettono in molti e non vale soltanto per una potenziale pittrice che diventi un'educatrice o un avvocato (o avvocatessa). Ma anche per un potenziale contadino che diventi un medico, o per un possibile ingegnere condannato dal padre, per esempio, a dover seguire il suo negozio. Non vorrebbe che sua figlia la ricordi come la madre che le permise di realizzare se stessa, anziché come quella che le impedì di fare ciò che desiderava, ciò che voleva, che la costrinse a fare ciò che non voleva? Sono parole un po' forti, me ne rendo conto. Ma qualcuno deve pur dirle. Se queste cose non gliele dice un insegnante, che la conosce, chi altri? Se non ora, quando? E poi perché sempre credere che i figli sbaglieranno, falliranno, si riveleranno incapaci? Se un angelo le assicurasse: "Sì, se lei seguirà la strada giusta diventerà una grande artista, farà mostre a New York e Parigi, i suoi disegni saranno utilizzati per pubblicizzare Olimpiadi e festival del cinema, i suoi quadri costeranno milioni... Allora cosa preferirebbe, lo sbocco lavorativo? È anche vero che in realtà ognuno è artefice della propria vita, nonostante tutto, oltre le costrizioni e gli obblighi, le speranze e i timori dei genitori, oltre le interferenze, certamente mai gradite, degli insegnanti, di parenti e amici. Se uno/a ci crede ugualmente coltiverà il suo sogno. Si sa che le scuole "artistiche", soprattutto come strutturate oggi, che siano d'arte di recitazione o di cinema, non garantiscono di per sé nuovi Rembrandt o Marlon Brando. Spesso anzi danno impostazioni sbagliate, inquadrano, irreggimentano, spesso deprimono i talenti anziché aiutarli a fiorire, e questo dipende anche dalla fortuna. In ogni scuola, di ogni livello, dai licei classici ai professionali ci sono incapaci che pretendono di insegnare solo urlando, e nelle classi attigue altri insegnanti competenti, autorevoli, sensibili, che non solo insegneranno abilità e competenze, ma forniranno modelli positivi e di vivere e di stare al mondo. (E ahimè saranno pagati allo stesso modo!) Però cinque anni, bene che vada, in un'età così delicata, inevitabilmente danno un'impronta profonda, in un senso o nell'altro, un'impronta intellettuale, psicologica, emotiva. E se quest'impronta sarà di pensare solo per tutta la vita allo stipendio fisso, e non a quello che nel mondo si fa, e non all'uso che faremo di questi 80 o 90 anni di questa vita, di vivere pensando ai numeri dei conti correnti e non a ciò che siamo e che diventiamo, ciò che diamo agli altri e dagli altri riceviamo, al di là dell'opportunità politica, del "si faccia i fatti suoi", del "a me che me ne viene"? 
Se non si va oltre questo, che impronta sarà? 

                Cordialmente Antar Chirag/Bruno De Domenico

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