mercoledì 29 agosto 2012

Psico-recensione di "Confidenze troppo intime"

Corso di “Psico-cineforum”, Scuola “F. Besta”, a.s. 2011/12, prof. De Domenico Psico-Recensione di “Confidenze troppo intime”, di Patrice Leconte. 
Confidenze troppo intime è la storia di un cambiamento. Anna, (Sandrine Bonnaire), una donna con problemi coniugali si presenta da un commercialista, William, (Fabrice Luchini), scambiando erroneamente il suo studio per quello dello psicoanalista accanto. William è un uomo rigido, ingessato e intrappolato nella sua quotidianità, in un rapporto edipico con una vecchia segretaria oppressiva, ferrea custode del loro grigiore. La nuova “paziente”, bella e affascinante ma certo non un sex-symbol (è un film francese, non USA), sconvolge questa routine mortifera esattamente come la simbolica folata di vento che in una scena fa volare tutte le carte e squinterna tutto lo studio, o come il fuoco che divampa nel cestino per la cenere gettata da Anna. Il commercialista è fin dal principio scombussolato da questa nuova presenza, ma irresistibilmente attratto, e non ce la fa a chiarire subito l’equivoco. Cercherà di rimediare dopo, recandosi nello studio accanto per reperire il numero di telefono della quasi-paziente, dove lo psicoanalista lo accoglie con fare da mago-profeta-shakespeariano: mentre lui sta entrando nello studio, quello esclama teatralmente, guardando il lettino: “Divani profondi come tombe!” Lo psicoanalista, in questo film, pur avendo un ruolo marginale, non ne esce certamente bene. Si fa pagare dall’analista anche per due parole scambiate informalmente, quando il protagonista gli chiede della cliente finita da lui per sbaglio; si fa pagare persino il pranzo nel caffè sotto casa dopo averlo invitato lui stesso, ma soprattutto conferma l’idea, diffusa tra i critici della psicoanalisi, che questa finisca col diventare più un freno che uno stimolo al cambiamento. Infatti, quando un paziente grave, fobico, panicante, ossessivo-compulsivo, e chi più ne ha più ne metta, viene invitato da Anna a salire in ascensore, per superarne la paura, lui risponde: “Non posso salire sull’ascensore: il dottor Monnier dice che non sono pronto”. Ci sale comunque, grazie all’incoraggiamento della protagonista, e quando uscendone lui la definisce una grande vittoria, pur tra mille urli, lo psicoanalista lo attenderà sull’uscio dello studio, con un cipiglio e un pretesco colletto bianco, visibilmente contrariato da quella vittoria ottenuta senza il suo consenso e anzi disattendendo i suoi ordini. Il commercialista e la falsa paziente, anche dopo aver chiarito l’equivoco, sono ormai intrappolati nel fatidico transfert e controtransfert, in un gioco in cui la rigidità di lui si scioglie gradualmente nell’autenticità e nell’instabilità di lei, e il masochismo depressivo di lei si stempera grazie al buon senso e all’aiuto di una persona fin troppo coi piedi per terra, fin troppo soffocata, fino allora, nelle proprie certezze. Il cambiamento di lui è simboleggiato da alcune scene emblematiche, come quando lui a casa, da solo, improvvisamente si toglie la cravatta e si mette a ballare, o quando spolvera il suo studio e ci rimette i suoi vecchi giocattoli. Un dialogo è particolarmente interessante, anzi emblematico, tanto da non resistere alla tentazione di trascriverlo: Anna: Era l’accendino di mio padre. È tutto quello che mi resta di lui, oltre a una foto. E non so neanche se è davvero lui. (…) E’ morto quando sono nata, in un incidente d’auto. Guidava mia madre. Lei ha ucciso mia madre e io ho quasi ucciso mio marito. Adesso ha tutta la pratica. William: È strano. Anna: Che cosa? William: L’incidente che si ripete, così, di madre in figlia. Anna: Ha messo via la donna triste?(un quadro) William: Eh sì, poverina, era trent’anni che era lì. Anna: Sono trent’anni che abita qui? William: Anche di più. Ci sono nato. Non mi sono mai spostato. Quest’ufficio era di mio padre. Quando è andato in pensione me l’ha lasciato… (…) Anna: E suo padre che faceva? William: Come me. Anna: Ah! Anche questo si ripete di padre in figlio! William: Non avrei mai pensato di esercitare il suo mestiere. Quando ero adolescente sognavo di fare l’esploratore, conquistare molte donne, il mondo, e poi alla fine il mondo si è ridotto a questo appartamento (…) Anna: C’è una porta chiusa in fondo. William: E’ la camera dei miei genitori. Anna: No, stavo parlando di lei, non del suo appartamento. Piano piano, William riesce anche a trovare il coraggio di rimettere al suo posto l’oppressiva, mammesca segretaria, visibilmente contrariata dallo stravolgimento del suo vecchio commercialista. Lui non riesce più a seguire i clienti che gli parlano di soldi e tasse, li caccia persino via pur di accogliere immediatamente la bella “paziente” che naturalmente giunge nel suo studio (e persino a casa sua), nei momenti e nei modi più inaspettati, da vera eroe romantica. Ormai non possono fare a meno l’uno dell’altra. E la cosa bella e impressionante è che nonostante tutto i due finiscono realmente con l’aiutarsi a vicenda. Grazie a lui lei troverà il coraggio di liberarsi di un passato ormai opprimente, e di intraprendere il percorso per realizzare i suoi vecchi sogni. Grazie a lei, lui riuscirà a mettere fine a una relazione ormai consunta che non lo faceva più evolvere, e comincerà a vivere una vita diversa, non più scandita dalle occhiate e dagli impliciti ordini della sua segretaria, e dai rigidi schemi che la regolavano come una dichiarazione dei redditi. Significativo in questa doppia rivoluzione è il radicale cambiamento dei colori, degli sfondi, delle atmosfere che si respirano nel film, dapprima grigie, buie, tristi, poi colori caldi, solari, gioiosi. A Carl Rogers, uno dei fondatori della psicologia umanistica, sarebbe piaciuto.

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